Tuesday, September 3, 2013

MAGGIORANZE BULGARE IN PROTESTA

  
Un paese relativamente piccolo e situato alla periferia dell’Europa qual è la Bulgaria raramente viene fatta oggetto dell’attenzione dei media internazionali. Il 24 luglio scorso, però, è stata un’eccezione: su tutti i giornali e i siti europei e americani si potevano vedere allarmanti immagini di Sofia. Il motivo era altrettanto allarmante: la notte precedente la polizia aveva respinto con grande violenza i dimostranti che avevano circondato il Parlamento. Cosa c’è dietro questi avvenimenti?
Circa quaranta giorni fa, enormi dimostrazioni di piazza erano un avvenimento quotidiano a Sofia. I partecipanti, che comprendevano numerosi studenti liceali e universitari, erano indignati dal fatto che il nuovo governo aveva fatto scelte alquanto discutibili per ricoprire importanti cariche amministrative; tra di esse, aveva particolarmente colpito la nomina di un notorio imprenditore del mondo dei media alla guida dei potenti servizi segreti interni del paese. Questa decisione, e altre del medesimo tenore, sono state considerate sintomi evidenti degli inestricabili legami tra l’elite politica e diversi circoli affaristici che si muovono ai limiti della legalità. Le proteste sono chiaramente non di parte, giacché la gran parte dei dimostranti rifiuta di identificarsi con il partito di opposizione e accusa l’intera classe politica di tendere alla corruzione. È per questo che, per descrivere l’attuale sistema in Bulgaria, preferisco il termine “cleptocrazia” – da intendersi come un sinonimo più elegante di “clientelismo” – giacché quello di arricchirsi senza troppi scrupoli a spese della collettività è stato il tratto caratteristico dell’elite politico-economica per gli ultimi 23 anni.
La transizione della Bulgaria dal socialismo reale è stato un tragitto piuttosto complicato. Tutto è iniziato nel 1989, quando – a differenza di quanto è avvenuto in paesi dell’Europa centrale come la Cecoslovacchia o la Polonia – l’elite comunista ha architettato un “ricambio” del vecchio regime, sostituendolo con nuove strutture nelle quali i vecchi personaggi del partito comunista e delle sue organizzazioni sussidiarie continuavano ad occupare le “alture dominanti” dell’economia e del sistema politico. Il vecchio partito comunista, principale membro dell’attuale coalizione di governo, ha cambiato il proprio nome in Partito Socialista Bulgaro e sostituito alcuni dirigenti con facce nuove ma, a differenza della gran parte dei vecchi partiti comunisti dell’Europa centrale, quello bulgaro non è mai diventato un’organizzazione social-democratica di stato europeo occidentale. Il ricordo dei “bei vecchi tempi”, quando la Bulgaria era il satellite sovietico più fedele, continuano a contraddistinguere la retorica del partito. Ovviamente il quadro non è del tutto cupo: dopo la devastante iper-inflazione del 1996-97 sono stati ottenuti diversi notevoli successi in campo macroeconomico: ad esempio, nel 1997 il Fondo Monetario Internazionale ha assistito il paese nella creazione di una currency board, che ha fissato il tasso di cambio del lev bulgaro rispetto al marco tedesco (e successivamente all’euro), con il risultato che da allora il paese gode di una notevole stabilità monetaria. Il debito pubblico si è drasticamente ridotto e oggi è pari al 18 per cento del PIL, uno dei valori più bassi nell’Unione Europea (incidentalmente, molti economisti e numerosi dimostranti temono che questo risultato sia messo a repentaglio dalla proposta di bilancio avanzata dal nuovo governo e dalla riattivazione di un progetto per la costruzione di una centrale nucleare guidata da una conglomerata russa). La Bulgaria, inoltre, ha tra le tasse più ridotte nell’Unione Europea, con un’aliquota fissa (flat tax) del 10 per cento per l’imposta sul reddito sia delle persone fisiche, sia delle imprese. Tuttavia nessun governo è riuscito a sciogliere l’intreccio tra le strutture di stampo mafioso che si annidano in buona parte dell’economia del paese e l’elite politica, a dispetto dei tentativi (peraltro sporadici e per lo più inefficaci) di esercitare pressioni dall’esterno. La qualità delle istituzioni bulgare è quindi scadente, anche se paragonata a quella dei paesi confinanti. Per questo, dopo che la bolla speculativa immobiliare ed edilizia si è sgonfiata nel 2009, gli investitori esteri sono apparsi riluttanti ad impegnarsi in nuovi progetti e l’afflusso di nuovi capitali stranieri si è notevolmente ridotto.
Si può dire che le proteste in Bulgaria siano uniche nel loro genere? Alcuni commentatori internazionali hanno proposto analogie con i recenti avvenimenti in Egitto e in Grecia, ma ovviamente vi sono notevoli differenze: in Bulgaria, a differenza dell’Egitto, non vi sono questioni religiose; inoltre non vi è niente che possa essere paragonato alle strutture militari egiziane. A differenza della Grecia, invece, nelle proteste non si ravvisano sentimenti anti-occidentali, anzi: i dimostranti sono entusiasti del sostegno che ricevono dai media stranieri e dagli ambasciatori dei paesi dell’Unione Europea che, nelle ultime settimane, sono stati sorprendentemente poco diplomatici nei confronti del governo. Tuttavia potrebbero esservi alcune somiglianze con le proteste di altri paesi del Mediterraneo. I dimostranti di ogni età hanno levato la voce per dire “basta!” all’elite di tutti i partiti. È ancora possibile che la transizione della Bulgaria abbia un lieto fine, che ai miei occhi sarebbe rappresentato da un avvicinamento, per quanto lento, all’ideale di un ordine politico e sociale libero, consistente di una cornice di rule of law che racchiude un’economia di libero mercato in regime di concorrenza, una democrazia funzionante e una vivace società civile. Per esser chiari, questo significa l’esatto opposto della trasformazione della Bulgaria in una copia in sedicesimo della Russia putiniana, una trasformazione che forse alberga ancora nelle fantasie di alcuni dei russofili di oggigiorno a Sofia. Quello che anima tanti dei dimostranti nelle strade di Sofia è il sogno di far diventare la Bulgaria semplicemente un normale paese europeo, magari con un modesto livello di vita paragonabile a quello delle nostre ex-”repubbliche sorelle” dell’Europa centrale. È un’utopia? Le prossime settimane e mesi potrebbero rivelarsi decisive per rispondere a questa domanda.
(Fonte: Leoni Blog

Monday, February 4, 2013

CONFLITTI INTRASTATALI IN AFRICA. (Africa intrastate violence)

I chart the outbreak of intrastate violence from 1989 to 2010 in a part of the world that has become synonymous with civil wars and intrastate conflict – i.e., Sub-Saharan Africa. (Note: The red points on the map represent conflicts with over 1,000 deaths.)
Source: ISN 

Image source: Uppsala Universitet

Thursday, November 8, 2012

DOPO LA TIRANNIA. (After the tyranny)


After the shooting stopped in 1945, thousands of children and teenagers in Berlin’s ruins were left to their own devices. One in five schoolchildren had lost a parent. Despair gripped the adults in the capital, all of which was still under Soviet control.

In the western district of Neukölln, a group of young people decided to take matters into their own hands. Announcing on the day before the Allied victory that they would help rebuild the city, they formed a civic group and called it “anti-fascist.” Two weeks later, they had 600 members, had cleared the rubble from two sports stadiums and had organized five orphanages.

Inspired by their example, other young Germans began organizing similar anti-fascist groups in Berlin, but they didn’t last long. On July 31, the Soviet Military Administration banned all unregistered organizations. After that, many groups, clubs and associations were denied permission to exist.

This decision was not an aberration. Newly opened archives show that the persecution of civic activists, frequently enforced by violence, often took precedence over Communist parties’ other political and economic goals in the Soviet bloc at that time. Selective violence was carefully aimed at elites — intellectuals, businessmen, priests, police officers, anti-Nazi partisans — and above all at anyone capable of founding and leading any kind of spontaneous organization, no matter how apolitical. Scout groups, Freemasons and Catholic youth leaders all figure among the early victims of these regimes.

In later decades, this Soviet pattern of “totalitarianization” — the pursuit of total control over all aspects of public life — was widely imitated. Saddam Hussein’s Iraq and Muammar el-Qaddafi’s Libya got Soviet and East German advice on secret police methods, as did Chinese, Egyptian, Syrian, Angolan, Cuban and North Korean governments on those and other aspects of societal control.

As we now know, these methods never worked as they were meant to do in Eastern Europe, and they were never entirely successful in Asia, Africa, Latin America or, as we’ve lately seen, in the Arab world. Nevertheless, they did great damage.

In their drive for power, the Bolsheviks and their East European acolytes eliminated or undermined churches, charities, newspapers, guilds, literary and educational societies, companies and retail shops, stock markets, unions, banks, sports clubs and centuries-old universities. If nothing else, Eastern Europe’s postwar history proves just how fragile human organizations are. If enough people are sufficiently determined, they can utterly destroy ancient and seemingly permanent legal, political, educational and religious institutions of all kinds.

As a result of this damage, post-Communist countries required far more than elections, political campaigns and political parties to become functioning liberal societies again, and far more than a few economic reforms to become prosperous. They also needed independent media, private enterprise, flourishing civic life, a legal and regulatory system, and a culture that tolerated independent groups and organizations.

Not accidentally, the most successful post-Communist states have been those that managed to preserve some elements of civil society throughout the Communist period, or were eager to emulate Western Europe’s laws and attitudes concerning civic culture. The least successful are those, like Russia, where even the memory of grass-roots civil society had faded by 1991.

Although post-totalitarian Europe has little in common with the Arab world culturally and politically, the two regions do share this: their dictators repressed (or tried to repress) civic activism and independent organizations. One reason the Muslim Brotherhood and radical Islamists have emerged in the post-revolutionary Arab world with so much political power and popular support is that so much of their potential competition was destroyed.

Islamists proved more resilient to repression for many reasons — because their adherents were motivated by faith as well as civic spirit, because they had cross-border links and financing from the Persian Gulf states — and now, in some places, they are the only groups with any organization or reputation on the ground.

But as they contend for power, they pose large questions for the Middle East. Will they recreate the methods of the autocracies and suppress other organizations? Or will they encourage a wider range of civic activism? That argument is now unfolding: some inside Egypt’s Muslim Brotherhood want the group to remain cohesive, univocal and dominant, while others push for more diversity in both the group and the country.

Elsewhere — though you wouldn’t know it from the headlines — there are signs of wider social mobilization. The single most heartening encounter I had on a trip to Libya last spring was with a group called Cleaning Up Tripoli, which organizes volunteer brigades of trash collectors. Its leader was negotiating with the city sanitation department over the site of a new dump, a straightforward effort that the young anti-fascists of 1945 Berlin would have approved.

Perhaps such efforts will help Libya build a political culture that is democratic in the best sense — with citizens participating in decisions that affect them. But the infrastructure required for such activity is complex. To sustain it, Libya will need good laws on nonprofit organizations, regulation of charitable donations, a press that is free and professional enough to chronicle such efforts, and government officials who respond to the public.

Though I’d like to believe otherwise, the outside world is of limited use in supporting such changes. Private and government organizations can give material help, and nongovernmental organizations can advise, particularly on legal and regulatory issues that often are ignored. Officials and activists who have lived through turbulent transitions elsewhere can share experiences, as Poles and Czechs now do with Tunisians and Egyptians.

But above all, a repressed society needs a motivated populace if it is to become politically vibrant again. To be more precise, it needs patriotism, historical consciousness, education, ambition, optimism and, especially, patience. The destruction wrought by totalitarian governments always takes decades even generations to repair.
(The New York Times)

Friday, June 22, 2012

ZANZARE DRONI. (Drone mosquitos)

 It's been several years since the rumors and sightings of insect sized micro drones started popping up around the world.

Vanessa Alarcon was a college student when she attended a 2007 anti-war protest in Washington, D.C. and heard someone shout, "Oh my God, look at those."

"I look up and I'm like, 'What the hell is that?'" she told The Washington Post. "They looked like dragonflies or little helicopters. But I mean, those are not insects," she continued.

A lawyer there at the time confirmed they looked like dragonflies, but that they "definitely weren't insects".

And he's probably right.

In 2006 Flight International reported that the CIA had been developing micro UAVs as far back as the 1970s and had a mock-up in its Langley headquarters since 2003.

While we can go on listing roachbots, swarming nano drones, and synchronized MIT robots — private trader and former software engineer Alan Lovejoy points out that the future of nano drones could become even more unsettling.

Lovejoy found this CGI mock up of a mosquito drone equipped with the 'ability' to take DNA samples or possible inject objects beneath the skin.

According to Lovejoy:

Such a device could be controlled from a great distance and is equipped with a camera, microphone. It could land on you and then use its needle to take a DNA sample with the pain of a mosquito bite. Or it could inject a micro RFID tracking device under your skin.

It could land on you and stay, so that you take it with you into your home. Or it could fly into a building through a window. There are well-funded research projects working on such devices with such capabilities
.

Friday, April 13, 2012

VIAGGIO NELLA FORESTA DEI SUICIDI. (Inside the forest of suicides)

La foresta di Aokigara è un posto solitario dove morire.

La vegetazione è molto fitta in questo luogo situato ai piedi del monte giapponese Fuji ed è facile scomparire misteriosamente nel verde senza che qualcuno se ne accorga. Ogni anno le autorità rimuovono centinaia di corpi morti: è il posto eletto per suicidarsi dalla popolazione del posto. Anche se comunque moltissimi corpi possono rimanere nascosti nella foresta anche per anni. Proprio questo il motivo per cui molte persone decidono di finire i propri giorni proprio qui, anche se il vero perché di questa scelta rimane comunque un mistero. E oggi proprio questo ha fatto nascere l’idea di un nuovo film ambientato proprio in questa foresta.
Azusa Hayano, geologo, ha studiato questa foresta per più di 30 anni e non riesce ancora a capacitarsi del fatto che le persone eleggano questo posto per togliersi la vita. Lavora qui da sempre e ha visto moltissimi cadaveri o è giunto quando ancora non era troppo tardi salvando qualche vita. Ha stimato che solo lui ha trovato più di 100 corpi negli ultimi 20 anni. Così ha deciso di assumere una troupe e girare un documentario: ha portato lo staff in un posto conosciuto come Jukai – il mare di alberi – per condividere davanti alle telecamere quello che ha imparato sino ad oggi.
Comunque Hayano non è ancora riuscito a trovare una risposta definitiva al perché le persone decidono di suicidarsi qui, se non l’idea che ci sono uomini così disperati da decidere di avventurarsi dentro la foresta con la consapevolezza che non torneranno più indietro.
Il film-documentario apre con un’auto abbandonata al limitare della foresta, una cartina lasciata sul cruscotto… Hayano davanti alla telecamera spiega che auto e cartina sono li da mesi.
“Credo che il proprietario si sia addentrato nella foresta e non sia mai tornato indietro” afferma l’uomo. “Probabilmente è entrato nella foresta con pensieri negativi che giravano nella sua testa e molte preoccupazioni”.
La telecamera nel frattempo mostra un cartello dell’associazione contro i suicidi che indica: “La tua vita è un dono prezioso. Pensa ai tuoi genitori, parenti e bambini. Non farti del male. Parla dei problemi che hai”. Sebbene i morti siano veramente molti, questo cartello ha comunque fatto cambiare idea ad alcuni. Altri, non sicuri di essere pronti a morire, spesso lasciano dei segnali dietro di loro, spiega Hayano, usando come pollicino le briciole di pane per avere un segnale sulla strada del ritorno e per essere in grado di tornare indietro non appena hanno un ripensamento.
“Nella maggior parte dei casi se segui il percorso segnato e i segnali riesci a tornare”. Nel frattempo Hayano si addentra insieme alla troupe nella foresta e arriva ad un campo con tende vuote, sicuramente non un buon segno. Nessun cadavere qui, solo una bambola appesa ad un albero. “Probabilmente questa persona era torturata dalla società” afferma l’uomo.
Ci sono alcuni segnali che saltano immediatamente all’occhio ad Hayano e che fanno pensare subito a qualcosa di negativo. L’uomo continua a camminare e trova una tenda gialla nel mezzo di una radura. All’interno un giovane uomo che dice di essere lì per fare un po’ di campeggio. Ma Hayano, che racconta alle telecamere della volta che ha dovuto convincere un uomo a non impiccarsi, conosce bene i suicidi e li sa riconoscere a colpo d’occhio. Dopo aver scambiato due chiacchiere con l’improbabile campeggiatore, lo lascia con queste parole: “Prenditi il tempo per pensare e cerca di vedere le cose in maniera positiva”.
Ma alla fine, arriva la conferma che non sempre è possibile salvare le persone. Ed ecco la scoperta di uno scheletro umano, ancora con vestiti e stivali.
Hayano, sebbene ne abbia visti tanti di cadaveri, sembra comunque scioccato. Il suo lavoro ha reso la vista di corpi di uomini suicidi qualcosa di particolare, di sentito. Secondo lui il suicidio in Giappone è cambiato con il passare degli anni. Dapprima era una tradizione e una pratica dei samurai, che commettevano il rituale ‘harakiri’ per preservare il proprio onore. Ad oggi è semplicemente un segnale di isolamento sociale e di problema del mondo moderno.
“Credo sia impossibile morire eroicamente commettendo un suicidio” ha affermato. Hayano crede che questa tendenza al suicidio sia un sintomo della crescente impersonalità e solitudine della vita che le persone vivono, estraniate in quel mondo che è internet.
E aggiunge: “Ora possiamo vivere la nostra vita tutto il giorno online. Ma quello di cui abbiamo bisogno è di vederci in faccia, leggere le espressioni sul viso, sentire la voce: solo così possiamo essere in grado di sentire le emozioni e di vivere.”
(NonCiPossoCredere.com)

Monday, February 6, 2012

BRAVEHEART RELOADED

Al Parlamento di Westminster i leader tanto dei partiti al Governo (conservatori e liberal-democratici) quanto dell’opposizione laburista scrollano il capo e dicono: «È l’ennesima “nuisance”, Edimburgo ricomincia a rompere».Il capoluogo scozzese ha la voce dall’inflessione un po’ gaelica di Alex Salmond,leader di quel Partito nazionalista scozzese (SNP) che nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Holyrood dello scorso anno ha ottenuto la maggioranza di seggi, battendo i principali partiti. A Westminster sono sostanzialmente convinti che Salmond si stia montando la testa. Non gli basta, infatti, che nel 1997 Londra abbia messo in atto per la Scozia il piano di «devolution», ovvero quella formula di decentramento che ha consentito a Edimburgo di avere un sistema educativo, sanitario e giudiziario indipendenti, pur rimanendo nell’orbita del Parlamento centrale. Senza mezzi termini, Salmond ha chiesto e ottenuto di proporre ai cinque milioni e 200 mila scozzesi un referendum formulato sul quesito: «Siete d’accordo che la Scozia debba essere un Paese indipendente?». Per gli scozzesi le date contano, fanno parte della storia nazionale. Non a caso l’annuncio di Salmond è stato fatto lo scorso 25 gennaio, 253. anniversario della nascita di Robert Burns,poeta-eroe della letteratura scozzese. E la data scelta per il referendum, il 2014, richiama a Edimburgo due ricorrenze: la prima, fausta, è il 1314, anno in cui il re scozzese Robert I the Bruce, con la battaglia di Bannockburn, restaurò di fatto l’indipendenza della Scozia; la seconda, nefasta, il 1714, data della morte della regina Anna, ultima degli Stuart, quando Inghilterra e Scozia insieme furono poste sotto la sovranità degli Hannover. Che Edimburgo insorga nuovamente peraltro non stupisce, se si considera il fatto che l’Atto di Unione del lontano 1707 non fu mai completamente digerito dagli scozzesi. Fu una decisione intrapresa per necessità finanziarie, sostengono a Edimburgo, e chi firmò per conto della Scozia lo fece perché soggetto a tangenti. Amara la conclusione dello stesso poeta Burns: «Ci vendemmo per una manciata d’oro inglese», furono le sue parole.
E prettamente finanziarie sembrano essere le ragioni che guidano anche oggi i nazionalisti scozzesi nelle loro rivendicazioni. «La Scozia – osserva Salmond – ha il sesto Prodotto interno lordo del pianeta. È ricca di risorse naturali. Esporta il whisky. Mentre l’economia del Regno Unito frena. E quando le Nazioni Unite sono nate accoglievano 50 Stati. Ora sono 200. Dieci si sono aggiunti nel 2004. Sei sono più piccoli di noi». Salmond ribadisce che, anche da indipendente, la Scozia considererà ancora la regina il suo capo di Stato, ma Edimburgo avrà il potere di distanziarsi da decisioni impopolari prese dal Governo centrale come quella che ha visto il Regno Unito affiancare gli americani nella guerra in Iraq. Andando al nocciolo, non è neppure casuale che il leader nazionalista usi i suoi archi da guerra contro Westminster in una fase di recessione economica e di pesante debito pubblico, da spartire con Londra. La dinamica del suo comportamento è duplice. Da una parte Salmond gioca di sponda mirando ad ottenere, nel caso di un no al referendum, almeno una Devo Max, cioè una «Devolution potenziata», ovvero la massima autonomia finanziaria all’interno di un sistema simile a quello federale. Dall’altra, si comprende che la massima posta in gioco è una sola: negli ultimi cinque anni – ha calcolato il leader scozzese – una Scozia indipendente, con pieno controllo dei proventi del gas e del petrolio del Mare del Nord, avrebbe avuto un avanzo primario di 7,5 miliardi di sterline.
Tali cifre spaventano Londra, che controbatte dicendo che senza l’Inghilterra la Scozia sarebbe debole e in un sistema globale conviene basarsi su un’economia integrata. I sondaggi dicono che la percentuale di scozzesi favorevoli all’indipendenza non sarebbe oggi superiore al 38%. Ma perché si possa mantenere questa percentuale minoritaria occorrerebbe indire il referendum al più presto possibile: non solo perché i mercati scalpitano ma soprattutto perché nell’arco di due anni le truppe del novello Braveheart, al richiamo di «Scots Wha Hae», l’inno che celebra gli eroi dell’indipendenza, potrebbero paurosamente infoltirsi.
(Corriere del Ticino)

 
Image Hosted by ImageShack.us
Google
Yahoo